L’uomo in spats (senza pantaloncini) e il confine tra libertà e buon gusto sul tatami
Quando Brianna Ste-Marie — argento ADCC e una delle figure più rispettate del grappling moderno — parla, di solito lo fa con equilibrio. Ma sul tema “uomini in spats senza pantaloncini” ha deciso di mollare il freno a mano.
Durante un’intervista al podcast Jits and Giggles, la canadese ha raccontato un episodio avvenuto in un camp in Colombia: un atleta si presenta alla sessione serale indossando solo le sue spats. Nessun pantaloncino, nessuna remora.
“L’ho guardato e gli ho detto: ‘Scendi subito dal tappeto e vai a cambiarti.’ Non è accettabile,” racconta.
“Vedevo letteralmente il contorno del pacco. Non capisco come abbiamo potuto perdere la bussola al punto da pensare che vada bene così.”
Non è solo una questione estetica: è questione di ambiente, di rispetto, di limiti. E Ste-Marie lo dice senza giri di parole — come dovrebbe fare chiunque abbia abbastanza esperienza da sapere che il tatami non è una zona franca del buon senso.
Il dress code del grappler moderno
Il dibattito non è nuovo. Gordon Ryan ha persino inserito nel suo famoso (e controverso) dress code la regola esplicita: shorts sopra le spats.
E se conosci Gordon, sai che non è uno particolarmente ossessionato dalle convenzioni. Eppure anche lui ha capito che certe regole servono: non per moralismo, ma per ordine.
Siamo in uno sport dove ci si strozza, si suda addosso, si finisce incastrati in posizioni che con un minimo di fantasia potrebbero far arrossire chiunque.
Proprio per questo l’equilibrio tra libertà e decenza è più che un tema di “stile”: è un patto sociale.
L’approccio “primitivo” (che rispetto)
Io l’ho sempre detto, anche commentando il caso Gordon Ryan e il dress code: per quanto mi riguarda puoi rollare anche in mutande.
Ho lottato spesso a torso nudo, Brazilian Style, e mi piace quel ritorno primitivo al corpo, al contatto, alla semplicità del gesto. È quasi un richiamo alle origini: due esseri umani, uno cerca di strangolare l’altro, niente orpelli.
C’è qualcosa di autentico, persino poetico, in quella nudità agonistica.
Ma — e qui viene il punto — se la tua libertà diventa una distrazione per chi ti sta intorno, o peggio una barriera per chi vorrebbe iniziare ma si sente a disagio… forse non è più libertà, è solo mancanza di attenzione.
Il problema non è la pelle, ma il contesto
La scena descritta da Ste-Marie è un perfetto esempio di questo slittamento.
Non è scandalosa in sé, ma rompe la sintonia collettiva.
In un camp internazionale, con atleti di vari livelli e culture diverse, la vista di un “pacco in HD” a un metro di distanza può essere un po’ troppo.
E non serve un master in antropologia per capire che certe cose — pur naturali — non aiutano la coesione del gruppo.
Poi certo, se ti piace sentire il tessuto tecnico aderire come una seconda pelle, nessuno ti giudica.
Ma se proprio hai le gambe delicate e vuoi metterti gli yoga pants, mettiti dei cazzo di pantaloncini sopra.
Non per pudore, ma per rispetto di chi condivide lo spazio.
La questione invisibile: le donne sul tatami
C’è anche un altro tema, meno detto: le ragazze.
Ste-Marie lo tocca indirettamente quando parla di “ambienti in cui le persone non si sentano a disagio”.
Il BJJ ha ancora un problema di proporzioni — in molte palestre le donne sono una minoranza — e creare un contesto sicuro è una responsabilità comune.
Non servono crociate sul dress code: basta un po’ di empatia.
Perché se un gesto semplice come infilare un paio di shorts può far sentire qualcun altro più a suo agio, è un piccolo prezzo da pagare.
La forza del jiu-jitsu è nella fiducia reciproca: ti lascio mettermi in strangolamento solo se so che rispetterai il mio limite.
Vale anche per l’abbigliamento.
Il valore del confine
Il messaggio di Ste-Marie non è moralista, anzi.
È una lezione su come i confini servano a proteggere, non a limitare.
Quando dice “i principianti faticano a mettere limiti” sta parlando anche di questo: di quella educazione implicita che i veterani dovrebbero trasmettere.
Saper dire “questo non va bene qui dentro” è un atto di leadership, non di censura.
E chi si allena da anni sa che il tatami è una società in miniatura.
Ci sono regole non scritte che tengono tutto insieme: si saluta, si pulisce, si rispetta la distanza.
Il dress code non è diverso — è un segno di cura.
L’ironia della libertà
Il paradosso è che chi difende l’“autenticità” del roll in spats integrali spesso finisce per trasformarlo in una provocazione.
E allora la libertà perde la sua innocenza e diventa posa.
Quella sì, da evitare.
Personalmente resto dell’idea che il BJJ sia un linguaggio corporeo: puoi comunicare intensità, rispetto, gioco, persino ironia.
Ma non serve farlo con l’anatomia in primo piano.
C’è già abbastanza ego nei tornei, nelle storie Instagram, nei post “war ready”.
Conclusione: un po’ di buon senso (e pantaloncini)
In fondo la regola è semplice:
allenati come vuoi, ma senza dimenticare che condividi uno spazio con altri esseri umani.
Il tatami è un luogo sacro e imperfetto, dove convivono culture, pudori e manie.
Non serve vestirsi da monaco shaolin, ma nemmeno trasformare la lezione serale in una replica di Magic Mike.
Puoi rollare a torso nudo, puoi preferire le spats sotto, puoi farlo per comodità o per stile.
Ma se vuoi davvero essere un grappler maturo, mettiti quei pantaloncini sopra e risparmia al mondo il tuo pacco in 4K.
È una forma di rispetto, non di censura.
E in un’epoca in cui tutti vogliono “essere se stessi”, ricordarsi anche degli altri è ancora la forma più elegante di libertà.
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