Intervista a Flavia Paganessi

Buongiorno a tutti,
oggi ci troviamo a parlare con Flavia Paganessi, ex atleta della Nazionale italiana di Judo oltre che del Centro Sportivo Olimpico dell’Esercito Italiano, detentrice tra l’altro di 12 medaglie d’oro ai Campionati Italiani (tra cui Campionati Italiani Assoluti, Camp. Ita. di categoria, Camp. Ita Universitari, Camp. Ita. per società, Coppa Italia) e diverse  medaglie nelle competizioni internazionali, tra cui il 3° posto agli EYOF (European Youth Olympic Festival) a Lisbona nel 1997, 3 medaglie  ai Mondiali Militari a squadre: bronzo a San Pietroburgo (Russia-2005), argento a Hyderabad (India-2007), bronzo a Rio de Janeiro (Brasile-2011). Quinta ai Giochi del Mediterraneo a Pescara nel 2009.
L’intervista a Flavia nasce, non solo perchè la ritengo una grande amica, ma anche dalla condivisione di un piccolo pezzo di percorsojudoistico presso l’asd “Isao Okano Club 97” a Cinisello Balsamo (MI), diretto dal tecnico Diego Brambilla, grande “Maestro” ed ex olimpionico.

Ciao Flavia, benvenuta a Grappling Italia! Che piacere poterti intervistare.
So che è stato un periodo difficile anche perché vivi in provincia di Bergamo e, come tutti sappiamo, è stata una delle zone più colpite dal Covid-19. Attualmente sta andando un po’ meglio?
FP:  A fine febbraio 2020 siamo state tra le zone più colpite e non credo ci sia stata famiglia bergamasca non interessata o toccata da questa tragedia. Ora non posso dire con certezza che la situazione vada meglio, ma so di sicuro che i bergamaschi così colpiti sin dall’inizio del 2020, una volta che il clima si è calmato hanno comunque rispettato sempre le regole, e questo forse è servito a limitare i contagi.

Secondo te è giusto ripartire con gli allenamenti e le gare?
FP:  Secondo me non è giusto penalizzare gli sport da contatto, le palestre, i centri sportivi e tutto lo sport diverso dal calcio. Vedo immagini di partite dove ci si abbraccia, si fa gruppo e noi non possiamo nemmeno allenarci con un compagno. Negli ultimi decreti, per quanto riguarda gli sport da contatto, è stata data la possibilità agli agonisti/atleti di interesse nazionale di allenarsi ma è solo una piccola parte di tutto il mondo sportivo dove bambini, ragazzi ed amatori restano purtroppo esclusi. Sono la prima a dire che le regole vanno rispettate. L’abbiamo fatto e lo facciamo tutt’ora e penso che si debba riaprire o ripartire solo se c’è la garanzia della massima sicurezza ma queste regole “dovrebbero” valere per tutti gli sport.

Come e quando hai iniziato a praticare judo?
FP: Ho iniziato a praticare judo a 4 anni, mio papà è stato il mio primo maestro. Lui insegnava nel suo club, il Judo Club Clusone ed anche mia mamma faceva judo quindi per stare tutti insieme mi portavano in palestra, praticamente sono cresciuta lì. Io mi divertivo, giocavo saltando e rotolando con gli altri bimbi e nello stesso momento imparavo le tecniche. Crescevo, alternando il judo ad altri sport. Ho praticato basket, atletica, calcio femminile e d’inverno sciavo. Fortunatamente i miei genitori han sempre pensato che per la mia crescita ed il mio sviluppo fosse importante fare un po’ di tutto. Poi, con il passare del tempo gli impegni sportivi judoistici sono aumentati e mi sono dedicata solo a quello. Mio papà in palestra era severo, particolarmente con me, perché dovevo essere un modello per gli altri ma questo è stato importante perché sul tatami ho imparato non solo a giocare, ma a rispettare le regole che mi sono servite poi, nella vita.

Da ex atleta del Centro Sportivo Olimpico dell’Esercito ora che fai? Ci racconti un po’ cosa succede all’atleta professionista in Italia al termine della carriera agonistica?
FP: Una volta terminata la carriera agonistica mi è stata data l’opportunità di rimanere nella Forza Armata e di svolgere la normale attività di servizio. Ma non è così per tutti. Ed è per questo che è importante non trascurare lo studio. Io sono riuscita a laurearmi pur praticando judo ad alto livello perché non potevo buttare tanti anni di studio e concludere l’università era diventata più una soddisfazione personale che un’esigenza lavorativa. Mi sono laureata in Scienze Motorie con 110 e lode all’Università degli Studi di Pavia dove la frequenza era obbligatoria. Facevo i salti mortali per riuscire a conciliare studio e sport. Ci tengo a dirlo perché sono molti i giovani che dicono di non riuscire nelle due cose già dalle scuole elementari. Sicuramente non è facile, basta organizzarsi (e da piccoli serve soprattutto l’aiuto della famiglia). La vita da atleta non è tutta rose e fiori . C’è dedizione (un’etica da seguire), tanto sudore (allenamenti costanti anche nei giorni di festa), sacrificio (giorni e giorni di allenamenti non sempre ripagati da successi) ma siamo stati fortunati perché oltre alle tante soddisfazioni abbiamo fatto e facciamo  ciò che ci piace quindi, una volta finita la carriera, dobbiamo dedicarci con tutte le nostre forze nell’essere da esempio per tanti giovani che fanno il nostro sport, di modo che intraprendere l’attività di insegnamento non rappresenti una necessità ma un dovere (morale).
Per insegnare bisogna essere preparati e studiare, non ci si improvvisa allenatori. Io seguo il club di mio papà e cerco di trasmettere le mie conoscenze ai ragazzi. Quasi tutti gli ex atleti insegnano nei club ma l’essere stato un grande atleta non è necessariamente sinonimo dell’essere un bravo allenatore. E’ fondamentale essere preparati perché abbiamo a che fare con bambini o ragazzi che dobbiamo crescere non solo sotto l’aspetto fisico/sportivo ma anche e soprattutto umano. Noi possiamo cambiare la loro vita, quindi non bisogna improvvisarsi insegnanti solo per avere un lavoro ma è fondamentale capire l’importanza di questo ruolo e svolgerlo al meglio; va da sé che avendo vissuto tante esperienze abbiamo davvero tanto da insegnare.

Cosa è cambiato a te quando hai intrapreso questa carriera agonistica da atleta professionista?
FP: Quando far judo è diventato il mio lavoro, potevo dedicarmi agli allenamenti, agli stage e alle gare con tutta me stessa. Anche prima lo facevo, ma c’erano stage o certe trasferte molto costose e per non gravare sulla famiglia li saltavo. Invece ora potevo parteciparvi, fare esperienze diverse, alzare ancora di più il livello, concedermi un allenatore che mi seguisse personalmente. Ho potuto vivere emozioni nuove come il partecipare e l’ottenere medaglie ai Campionati Mondiali Militari a squadre, il poter star via di casa per molto tempo, viaggiare e pensare solo agli allenamenti e alle gare. L’obiettivo era diventato ottenere risultati non solo per me stessa ma anche per il gruppo che rappresentavo. Ed è stata un’esperienza fantastica.

Qual è stata la gara che ricordi con più gioia?
FP: Sono tantissime le gare che ricordo con gioia. Sicuramente tutte le prime volte. Il primo titolo italiano esordienti, quando dalle montagne di Bergamo sono arrivata a Roma con la mia famiglia portando a casa la medaglia d’oro. Mi ricordo ancora che al termine dell’incontro finale sono corsa fuori dal tatami e sono saltata al collo di mio papà, che era seduto in sedia in quanto il mio tecnico, piangendo. Oppure la prima convocazione in Nazionale per le Giornate Olimpiche Giovanili, un sogno che si realizzava. Prima convocazione e prima medaglia internazionale, bronzo a Lisbona. E poi direi, sicuramente, anche il mio primo titolo ai Campionati italiani Assoluti, tanto desiderato quanto atteso. Alla fine si lavora per un risultato e ogni risultato raggiunto è un’emozione indescrivibile.

E invece quella che ti ha lasciato di più l’amaro in bocca?
FP: Non ho dubbi. Il quinto posto ai giochi del Mediterraneo a Pescara nel 2009. Praticamente sarebbe un quarto posto negli altri sport perché  per noi judoka l’incontro medaglia si definisce per il terzo/quinto posto, avendo sul podio due terzi a pari merito. Io sono stata sempre concentrata e determinata fino alla fine di ogni incontro ma quella volta qualcosa non è andato. Praticamente dovevo disputare l’incontro per il terzo posto contro l’atleta greca. Ero in vantaggio fino quasi alla fine e invece di concentrarmi sull’incontro e continuare come stavo facendo, ho avuto paura di vincere. Non mi era mai capitato ma quella volta il mio smettere di combattere mi ha portata alla passività e inevitabilmente alla sconfitta. Un quinto posto che ancora oggi mi lascia l’amaro in bocca.

Quanto hanno inciso gli infortuni nella tua carriera?
FP: Ogni atleta deve, purtroppo, convivere con gli infortuni. Io ho avuto un grave infortunio alla caviglia. E’ capitato in una gara di preparazione, poco prima dei Campionati Italiani e sono dovuta star ferma un anno. Fortunatamente l’operazione è andata bene, il recupero è stato graduale e non ho avuto particolari conseguenze. Forse l’unica conseguenza è stata a livello psicologico perché per molto tempo ho avuto paura di eseguire una tecnica o che potessero colpirmi sulla cicatrice che era ancora sensibile (anche se mettevo le protezioni). Invece non è stato lo stesso con le ernie cervicali che tutt’ora mi causano diversi problemi e conviverci era ed è più difficile.

Dovevi fare tanto calo peso o riuscivi a gestirlo bene?
FP: Purtroppo per molti anni ho voluto gareggiare nei 57 chili pur pesandone molti di più e ogni volta dovevo dimagrire parecchio. Facevo molti sacrifici sia fisici che mentali. Tante privazioni alimentari. Tantissimo calo peso, allenamenti estenuanti anche con la sudorina (k-way) o diverse sedute di sauna, tutte cose che non fanno per niente bene al fisico e che ora non proporrei a nessuno. Il giorno prima della gara nemmeno bevevo per rimanere in peso. Fortunatamente avevo un carattere forte, facevo tutto con tanta volontà ma se ci penso ora,  non mi capacito di come abbia potuto reggere a tutto quello che facevo.

Avevi qualche rito scaramantico prima delle gare?
FP: Tutti gli atleti sono scaramantici. C’è chi lo dice e chi no ma tutti noi abbiamo dei portafortuna o dei riti particolari. Alle gare io indossavo sempre la stessa felpa e avevo lo stesso elastico per legare i capelli. Oppure, io mi isolavo e al momento di salire sul tatami non abbassavo mai lo sguardo dalla mia avversaria. So di atleti che aspettano la pacca sulla spalla del proprio allenatore o si incoraggiano battendosi su braccia e gambe. C’è anche chi  non ha nulla di concreto a cui far riferimento, ma si incita usando frasi per convincere se stesso prima dell’incontro. Chi ascolta la stessa canzone. Ogni atleta è diverso, ma ciò che ci accomuna è sicuramente la voglia di vincere e la ricerca della concentrazione che viene anche attraverso questi riti.

Secondo te, cosa si potrebbe fare per espandere maggiormente questa disciplina in Italia?
FP: Quando ero più giovane non c’erano i social network e tutto rimaneva più nell’ombra “mediatica”. Dopo l’oro di Pino Maddaloni alle Olimpiadi di Sydney, le palestre di judo si sono riempite di ragazzi. Questo ha fatto capire quanto la TV o i media fossero importanti per la diffusione del nostro sport. Personalmente penso che investire maggiormente sulla pubblicità in TV, on line oltre che fisicamente con progetti nelle scuole, potrebbe far capire l’importanza del judo e aiuterebbe ad espandere maggiormente la nostra disciplina.  Qualcosa è stato fatto, ma bisogna continuare a crederci e ad investire in questo aspetto.

Se tu dovessi dare un consiglio ai giovani judoka, cosa vorresti dirgli?
FP: Ai ragazzi direi di non arrendersi alla prima difficoltà. Fare sport ad alto livello non è semplice perché il sabato e la domenica ci sono le gare, il che significa che la sera prima non si può uscire con gli amici e questo non è sempre facile da capire e da mettere in pratica. Far judo non è semplice e non sempre, nemmeno dopo mesi o anni di prove, si riesce ad eseguire perfettamente una tecnica. Il Judo è dedizione e costanza (come ogni sport preso seriamente). L’esempio sono i campioni che, nonostante la loro esperienza, dedicano buona parte dell’allenamento alla tecnica, aspetto che fa capire che non si smette mai di imparare. Quindi ai ragazzi direi di continuare a divertirsi facendo judo, poi tutto il resto vien da sé perché le soddisfazioni non sono solo il vincere una gara ma anche il poter condividere esperienze con gli altri giovani atleti.

Nella tua lunga carriera da atleta sono cambiati molto i regolamenti, cosa ne pensi? Preferisci quello attuale o no?
FP: Quando gareggiavo io c’erano determinate regole che ora non esistono più. Non so se ora riuscirei ad adattarmi velocemente  al nuovo regolamento. So solo che se avessi gareggiato ancora, sarei stata obbligata a farlo. Il judo è cambiato molto e quando per anni hai combattuto con certe regole è difficile abituarsi al cambiamento. Quando combattevo io tutto era consentito, anche la presa al di sotto della cintura, al pantalone, ecc.. da questo ne conseguiva la possibilità di fare molte altre tecniche (non più permesse). Venivano assegnati i punti (il koka) anche se l’avversario cadeva battendo il sedere a terra e questo permetteva di valorizzare ogni attacco anche se pur minimo. Ora si privilegia la spettacolarità, si dà il punteggio solo se l’avversario cade nettamente sul fianco/schiena. Probabilmente questo nuove regole non sono sbagliate, anche in un’ottica televisiva dove lo spettatore, che magari non è del settore, capisce meglio ciò che accade. Sicuramente è un judo più fluido e si dà spazio alla perfezione tecnica. In fondo, che ci siano le vecchie o le nuove regole, la cosa importante per cui ci si allena è riuscire a portar a casa l’incontro. Quindi all’atleta, che ci sia un regolamento o un altro non cambia. Si adatta e si allena di conseguenza.

Vuoi aggiungere qualcosa?
FP:  Sì, non vedo l’ora che si possa tornare presto alla normalità perché il judo, gli allenamenti, le gare sono la nostra vita.

Con questo allora ti ringrazio nuovamente per la tua disponibilità e ti auguro davvero il meglio.

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