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Grazie alle telecronache delle reti private, il professional wrestling entertainment, lo spettacolo della lotta libera professionistica, si è conquistato un fedele seguito anche in Italia. Popolare in America e Giappone, non va confuso con l’amateur wrestling, lotta agonistica presente alle Olimpiadi nelle due varianti, stile-libero e greco-romana. Una volta il pro wrestling era noto in diversi Paesi come catch (dalla massima catch-as-catch-can, ossia “prendi come puoi prendere”). Pur essendo esploso negli anni ’80, non fu un’invenzione dell’era reaganiana. Nacque difatti nella seconda metà dell’Ottocento come sport-spettacolo, per poi involversi in disciplina di puro intrattenimento. All’inizio degli anni ’20 la trasformazione si era già completata e l’avvento della televisione fece il resto. Il wrestling è oggi un fenomeno similcircense dalla violenza tanto plateale quanto artatamente coreografata. E questo sebbene possa ricordare il mondo della boxe (il ring, le cinture simboliche dei campioni, gli show strutturati alla stregua di eventi pugilistici). Il canovaccio è quello del favolistico scontro tra “buoni” e “cattivi”, con trame da fiction seriale, sfide tipiche dei western e siparietti da slapstick comedy. Dall’ispirazione alle antiche lotte dei gladiatori è derivato un ibrido connubio tra i film di Rocky e quelli con Bud Spencer e Terence Hill. Evidente anche l’influenza dei cartoni animati giapponesi, dei fumetti imperniati sui supereroi e dei videogame. Non è di certo la cosa meno seria o più trash della TV, tra programmi da bar dello sport, reality e opinionisti alla Platinette. Sovente, però, lo spettacolo, per quanto avvincente ed esilarante, degenera in una grottesca pantomima e nella farsa di dubbio gusto. Il pubblico, ormai, ne è in larga parte consapevole e, da componente interattiva dello show, sta anzi al gioco delle parti. Il successo della specialità è stato nobilitato persino da riferimenti colti. Basti pensare che l’intellettuale francese Roland Barthes non disdegnò di dedicare un saggio ai suoi significati simbolici e catartico-esorcizzanti.
Il wrestling, pertanto, prevede che l’effetto dei colpi venga enfatizzato, cercando allo stesso tempo di attutirli il più possibile. Il fatto che si presti a essere considerato una puerile carnevalata da baraccone ha contribuito a trasmettere l’immagine di un mondo di giganti buoni. Questi ultimi, in tale ottica, sarebbero amici fraterni che “non si fanno nulla”. La realtà del dietro le quinte, invece, è un po’ differente e più complessa. In un’epoca revisionista in cui viene sdoganato di tutto, bisogna dare al wrestling quel che è del wrestling e rendere giustizia ai suoi protagonisti. E ciò anche a costo di far arricciare il naso ai puristi dello sport. Innanzitutto, i wrestler professionisti non sono semplici cascatori corpulenti. In gran parte, provengono da discipline sportive ove hanno non di rado vinto, come Primo Carnera, già campione mondiale dei pesi massimi di pugilato. L’elenco delle medaglie d’oro olimpiche che dalla prima metà del secolo scorso si diedero poi in varia misura al pro wrestling è lungo. John Spellman, Henri DeGlane, Johan Richtoff, Axel Cadier, Robin Reed, Russell Vis, Pete Mehringer, Bobby Pearce, Jack Van Bebber, Fred Meyer, Wilfried Dietrich, Kurt Angle… A questi lottatori vanno aggiunti Dimitrios Tofalos e Paul Anderson (olimpionici nel sollevamento pesi), Anton Geesink, Willem Ruska e Shota Chochishvili (judoka vincitori dell’oro). Veri atleti dall’indiscutibile preparazione tecnica, dunque. Malgrado l’allenamento, sono frequentemente soggetti agli infortuni, dovuti alle prestazioni sempre più elevate, richieste dalle aspettative dei tifosi e da organizzatori senza troppi scrupoli. Molti si esibiscono sino a più di duecento serate all’anno in giro per il mondo (in passato qualcuno era arrivato addirittura a 340). La mancanza di tempo per recuperare e la scarsa tutela assicurativo-sindacale, unite all’esigenza di una possente muscolatura, li spinge ad abusare del doping. A cominciare da sostanze quali steroidi anabolizzanti e antidolorifici, agevolati in tal senso da controlli inesistenti o poco seri. Analogamente a certe stelle del rock, parecchi lottatori finiscono nel tunnel della dipendenza dall’alcol e dalle droghe vere e proprie, schiacciati dalla solitudine. Per non parlare dell’ingeneroso stereotipo di personaggio clownesco di cui rimangono prigionieri. La drammatica conseguenza di questo logorante stile di vita è rappresentata dall’alto tasso di mortalità dei pro wrestler statunitensi dai 45 anni in giù. Le cause più frequenti del loro prematuro decesso, di gran lunga superiore a quello della popolazione americana della stessa fascia d’età? Patologie cardiovascolari (favorite dalla stazza), neoplasie, overdosi, suicidi, morti violente in episodi di cronaca nera e incidenti nei continui spostamenti da un’arena all’altra. Tuttavia, i mass media dimenticano più spesso di menzionare i decessi dei wrestler sul ring o per le conseguenze dirette di un incontro. Dal 1903 a oggi se ne contano almeno 70, di cui 3 donne (in media uno ogni anno e mezzo circa). A un’analisi non superficiale, quindi, viene fuori il ritratto di un ambiente esasperatamente competitivo, se non cinico e a tratti crudele. Il tutto dominato da un business in cui rappresentazione scenica e verità si confondono in continuazione e lo spettacolo deve andare avanti comunque. Altro che innocuo gioco da ragazzi.
ROBERTO PASTORE
13/06/2009: MUORE SUL RING IL SECONDO “UOMO TIGRE” – Il wrestler giapponese Mitsuharu Misawa, che un tempo si esibiva con il volto coperto e lo pseudonimo “Tiger Mask II”, è deceduto durante un incontro. Il video sottostante inizia dai primi soccorsi e dai vani tentativi di rianimazione. Seguono immagini di repertorio, in cui Misawa lottava anche con la maschera, ereditata dal precedente “Tiger Mask” Satoru Sayama.
20/03/2015: “Perro” Aguayo jr perde la vita durante un incontro a Tijuana (Messico), in seguito a un calcio che provoca la rottura di tre vertebre cervicali.
14/01/2001: Sid Vicious si frattura una gamba nel corso di un match in quel di Indianapolis (USA).
I commenti sono chiusi.
Prima che qualcuno spacchi le palle avendo letto solo il titolo e guardato le foto: l’articolo è estremamente ben scritto. Pastore è un ottimo (e preciso) giornalista e ha fatto un articolo che parla sì di Pro Wrestling, ma da un’ottica che può interessare tutti i fan delle MMA.
P.S.: Eventuali refusi sono da imputare al correttore di bozze (cioè io), che non sa fare copia/incolla come Dio comanda.
Ottimo articolo.
Su un punto che viene tralasciato vorrei dire qualcosa: la tremenda confusione che mette in testa ai ragazzi il pro wrestling. Io e i miei amici, più di vent’anni fa, dalla primissima infanzia fino alle elementari e anche medie, andavamo matti per Hulk Hogan e co., ma non eravamo per nulla in grado di capire che fosse una pantomima.
Fino agli anni ’80, la parola d’ordine tra gli addetti ai lavori del pro wrestling era quella di cercare di non infrangere la kayfabe. Ossia: non svelarne ufficialmente la natura predeterminata e, con essa, i trucchi del mestiere. Si riteneva che ciò favorisse la partecipazione degli spettatori e il loro coinvolgimento emotivo. D’altronde, specialmente tra i più giovani, un certo grado di evasione dalla realtà e di immedesimazione è fisiologico nell’appassionarsi a romanzi e film. Trattavasi, evidentemente, di un segreto di Pulcinella, che non poteva comunque resistere di fronte ai mutamenti del tempo. Nell’articolo non ho mancato di rilevare che le storyline sconfinano troppo spesso nella commedia dell’arte (soprattutto nelle federazioni americane). Nella seconda parte, tuttavia, ho inteso sottolineare i motivi per i quali sarebbe riduttivo liquidare sbrigativamente il fenomeno – per quanto discutibile – come una semplice pagliacciata. E questo anche per il valore tecnico-atletico di diversi suoi interpreti e per i rischi cui si espongono (in tal senso, meriterebbero maggior rispetto). Nelle sue radici catchistiche e nelle successive propaggini nipponiche, secondo alcuni, potrebbe addirittura essere considerato una sorta di precursore delle attuali MMA. Si pensi allo strong style del puroresu della New Japan anni ’70/’80 di Inoki (talvolta avversario di campioni di altre discipline, come Muhammad Alì). Per non parlare dello shoot-style della UWF dei vari Satoru Sayama, Akira Maeda, Yoshiaki Fujiwara e Nobuhiko Takada. Dati sopraelencati alla mano e al netto delle critiche legittime, quanti e quali sport o generi di fiction risultano così letali per i loro protagonisti?
Molto interessante quello che scrivi.
Io vorrei solo dire che la finzione spesso non è riconosciuta dal nostro ‘inconscio’ (che per molti è una precisa struttura del cervello – quello arcaico, per intenderci). Basta vedere anche nella storia del cinema: quanti attori hanno subito, pur recitando, delle pesanti conseguenze sul piano psicologico (ricordo il famosissimo Anthony Perkins e la leggendaria attrice franco-italiana Renée Falconetti, che mai si ripresero dall’interpretazione dei loro personaggi)…
L’argomento meriterebbe un approfondimento ma forse non è questa la sede, in ogni caso Roberto ha scritto delle sacrosante verità, il fatto che la lotta sia simulata non significa assolutamente che non sia anche pericolosa e anzi, dati alla mano, gli incidenti gravi o addirittura mortali durante un match sono numerosissimi, probabilmente superiori in numero a quelli di tutti gli sport in cui si combatte per davvero. Ricordo un intervista di Ken Shamrock, il quale ha vissuto entrambe le esperienze sportive, sia di combattimento vero che “fake”, in cui diceva che bisogna essere estremamente rispettosi per questi performers che devono essere presenti a “timbrare il cartellino” anche 200/250 serate all’anno, che stiano bene oppure no, e che devono imparare un’arte tutt’altro che facile (perché, appunto, con la lotta vera non c’entra niente) e cimentarsi in manovre a volte di una pericolosità fuori scala (ne sparo qualcuna… Brock Lesnar che si lancia dal paletto e fa una shooting star press su Kurt Angle… sbagliata, fra l’altro, e atterra praticamente di faccia… Undertaker che fa una choke slam su Mick Foley dal tetto della gabbia!!! Il quale per attutire la caduta deve contare sull’aiuto di un tavolo posto giusto lì sotto, ma la lista in realtà ha una lunghezza oceanica ed è meglio fermarsi qui). Questi atleti hanno dovuto fare i conti con una popolarità sempre crescente e un pubblico che troppo velocemente si abitua a vedere le stesse cose, quindi spesso devono trovare soluzioni innovative che quasi sempre si traducono in manovre da film di fantascienza e a volte il conto da pagare è salatissimo. Credo però che, per quanto “colpevole di molte nefandezze”, la WWE (che non è l’unica federazione, ma è quella di riferimento per tutti) abbia cercato e stia cercando di far passare il messaggio che “what you see is what you get”, cioè in pratica quello che succede dentro l’arena rimane nell’arena e che, una volta usciti da lì, gli spettatori, soprattutto i più giovani, non tentino di replicare quanto eseguito dagli atleti nel ring, inoltre fanno moltissime campagne di incontro con i fans cercando di far capire che il loro è uno spettacolo pirotecnico, fantasmagorico, entusiasmante, ma è sempre e solo questo, uno spettacolo e basta. Ricordo anche io i “patetici” tentativi di mia mamma che cercava di farmi capire che quanto Hulk Hogan e Ultimate Warrior stavano facendo era una sorta di “collaborazione” e non una vera lotta, io sì, capivo, però poi in realtà non capivo veramente, ma credo che in questo senso il wrestling qualche passo in avanti lo abbia fatto e ormai è chiaro a tutti che sul ring si svolge una sorta di opera teatral/circense e non un combattimento… Salvo poi aprire YouTube e vedere gente che esegue una Tombstone piledriver lanciandosi dal tetto della casa ma rassicurando l’amico che subisce la mossa con un bel “stai tranquillo che so benissimo come si faaa…” Non ne usciremo mai… Grazie comunque a Roberto per la riflessione, ogni tanto una chiacchierata seppure leggermente fuori dallo spirito MMA/Grappling ci sta.
Bel commento Gianluigi, sono sicuro che Roberto apprezzi (e commenterà)
Anch’io nella mia infanzia guardavo sulle reti provinciali, al sabato pomeriggio, il wrestling… E, pur essendo consapevole che non tutto poteva essere vero, avevo fatto una distinzione tra quello che pensavo fosse “fake” (Hulk Hogan e soci) e quello che pensavo fosse vero, ossia il catch di Inoki e Tiger Mask. Alla fine erano la stessa cosa, ma nella mia ingenuità di ragazzino pensavo che il catch fosse “vero”. A tal proposito vi consiglio, se non l’avete già fatto, di recuperare un gioiello di film, con un Mickey Rourke in stato di grazia, che dà l’idea di chi sia un wrestler… Il film è THE WRESTLER e me lo son guardato 3 volte…
hehhe red wolf, con questo commento dimostri che anche tu, come me, sei un vecchio! Ricordo bene che anche io pensavo che il wrestling di Dan Peterson (Italia 1, sabato sera) fosse una pagliacciata, mentre il catch giapponese fosse vero, con alcuni match finti… Quello che ricordo è che una volta su due in Giappone uno usciva con la testa sanguinante…
Gran bell’articolo, io penso che per fare il pro wrestler devi essere un pazzo scatenato! Ho conosciuto un pro wrestler e una cosa che mi ha colpito era che si faceva di painkiller come fossero tic tac… Comunque io ero un babbo, pensavo che fosse tutto vero…
Vi ringrazio per l’apprezzamento dimostrato.
La distinzione tra il wrestling americano degli ultimi trent’anni e quello che in Italia veniva definito “catch giapponese” non è questione di lana caprina. Rispetto a certe caratterizzazioni delle due Americhe, strong e shoot-style del puroresu si sono segnalati per maggior realismo e cornice sportiva o marziale. Tutti i vari filoni, ovviamente, sono accomunati dal fatto di mettere in scena esibizioni predeterminate. Ma così come un film con Bruce Lee e uno di Neri Parenti sono entrambi prodotti cinematografici, non ritengo debbano essere messi sullo stesso piano.
Rimanendo in ambito cinematografico, senza nulla togliere alla qualità artistica di The Wrestler, credo però che quest’ultimo rischi di risultare per alcuni versi fuorviante. Difatti, è incentrato non sul pro wrestling, bensì sulla vita di un ex campione al crepuscolo (e quindi attivo solo part-time nei circuiti minori). Il film interpretato da Mickey Rourke, perciò, trascura la componente legata agli allenamenti. Dalla sua visione, anzi, sembrerebbe quasi che a questa disciplina possa dedicarsi con successo qualsiasi energumeno imbottito di ormoni sintetici.